Anything but loud

Privata

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    Rhona Nadira Khan | 24 anni | Stregone | scheda livello

    Sollevò il mento per seguire la silhouette dell’ennesimo grattacielo, arrampicandosi su quelle forme scolpite come avrebbe fatto col corpo di un’amante, senza trascurare alcun dettaglio, aggrappandosi a balconi e cornicioni pur di focalizzare un appiglio per il quale escludere tutto il resto.
    Era impossibile distinguere le pupille dalle iridi, in quegli ultimi tempi, ma un occhio attento avrebbe potuto scoprire le prime dilatate, impudicamente offerte a mostrare l’abisso che le abitava. Incamerava immagini e lampi onirici in un’unica abbuffata ingorda, Rhona Khan, sperando che un’indigestione di colori e suoni giungesse fulminante ad annientare le poche percezioni rimaste a sua disposizione.
    Bramava il silenzio, e intanto il chaos si faceva sempre più assordante.
    Con uno scatto del braccio lanciò in aria la bottiglia svuotata della birra, già la terza, il vetro roteò svelto, andando a centrare il cestino sul marciapiede con un fastidioso stridio di vetro e metallo. Non portava con sé alcun dispositivo che potesse segnalarle l’ora esatta, ma la concentrazione demografica nei punti più nevralgici della vita notturna di Los Angeles le suggeriva che era tardi, molto tardi. Reya non l’avrebbe vista rientrare neppure quella notte.
    Con la testa sufficientemente leggera da sopportare il brusio dei gruppi spensierati che sorpassava, Rhona passò in rassegna tutte le alternative che avrebbero potuto occuparle le ore successive; aveva già abusato del mare, sfruttato la quiete della metropolitana, e consumato indicibili intrattenimenti al Pandemonium, ma più si riempiva di anestetici e più si svuotava di soddisfazione.
    Il passato continuava a sovrapporsi prepotente alla fragilità del presente, oscurando definitivamente un futuro già per natura incerto, che assumeva ormai le sempre più nitide forme di incubo.
    Comprese di aver bisogno di bere ancora, Rhona, quando gli occhi inciamparono sulla lampeggiante insegna del Rooftop. In quel frangente il passato sapeva farsi sopportare, scolpito nei lineamenti famigliari di Fabien, agghindato da cambiamenti sopportabili - seppur notevoli - e confortante a suo modo grazie al tacito debito galleggiante tra i due vecchi amici.
    Lei aveva contribuito al suo anestetico, lui adesso avrebbe fatto lo stesso.
    Fissò il proprio riflesso nello specchio dell’ascensore per tutta la durata della salita fino al piano più alto, immobile, giudicante, commiserevole, non si riconobbe neppure quando accennò un cipiglio sulla fronte, quasi dubitasse di vedere il riflesso seguire realmente l’immagine originale.
    Il corpo si mosse meccanicamente, una volta spalancatesi le porte, stretto nei pantaloncini a vita bassa e sfiorato dalla camicia troppo larga che portava sbottonata, non esitò neppure quando gli occhi dei pochi avventori rimasti le si appiccicarono addosso con la curiosità che si rivolge ad un animale selvatico.
    Raggiunse il bancone, vi posò i gomiti, si sporse in avanti e inchiodò con lo sguardo chiunque vi fosse al di là del bancone.
    «Un Gin Tonic e Fabien Shaw, per favore.»
    La notte era ancora tremendamente giovane, per chi sapeva venerare l’autodistruzione.



     
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